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In libreria il saggio “Linguaggio mafioso – scritto, parlato, non detto”

“Linguaggio mafioso – scritto, parlato, non detto” di Giuseppe Paternostro, primo testo della collana I Saggi edito AutAut edizioni, di Francesca Calà e Salvo Spitalieri, con un’analisi approfondita e accurata del codice verbale, non verbale e scritto, Giuseppe Paternostro, ricercatore di linguistica italiana nel dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo, grazie alla numerosa mole documentaristica raccolta, interviste, dichiarazioni, intercettazioni, appunti, lettere degli uomini di Cosa Nostra, approfondisce i metodi comunicativi, il sistema valoriale e le trasformazioni che il linguaggio della mafia ha subito nel corso degli anni, fino al suo adattamento al milieu culturale in cui il mafioso vive ed esercita il proprio controllo.

Dai messaggi criptati, ai pizzini di Provenzano, dalle lettere di scrocco, fino al volto appariscente e televisivo che non esclude l’utilizzo dei social network, per mezzo di alcuni termini chiave, ancora oggi, la mafia parla alla cosa nostra.

Il paradosso della comunicazione mafiosa parte “da una domanda, forse ingenua, ma non per questo meno necessaria da porsi: per quale motivo un’associazione che ha fatto della segretezza, del silenzio, di tutto ciò che apparentemente è l’antitesi della comunicazione, in una parola (non a caso legata a quest’ambiente) dell’omertà, ha dato luogo a un sistema di comunicazione peculiare e, dunque, riconoscibile come tale?”.

Studiare il linguaggio mafioso e comprenderne le scelte verbali adottate, equivale a scoprirne il modus operandi interno alle cosche, e i metodi con cui per anni ha agito l’organizzazione criminale. Attraverso un excursus storico che parte dai primi anni del ‘900 e si conclude nel 2017 – con le ultime interviste rilasciate dai figli dei boss Provenzano e Riina o le frasi scritte sulle home dei più celebri socialnetwork – l’analisi condotta da Paternosto sul gergo mafioso, u baccagghiu, aggregante e al tempo stesso esclusivo delle cosche, rivela la volontaria estraneità alla società, e il mantenimento di un dialogo univoco tra i membri dei clan mafiosi per mantenere la riservatezza rispetto alle azioni de gerganti.

“Altra importante caratteristica di una lingua speciale/sottocodice è quella di essere utilizzata/utilizzabile e, dunque, disponibile, solo a una ristretta cerchia di utenti, che corrisponde a quella degli addetti ai lavori di una determinata disciplina o gruppo”.

Sebbene l’oralità sia stata alla base della comunicazione all’interno dei clan, a partire dai primi anni del Novecento le primule rosse utilizzano mezzi di comunicazione di tipo cartaceo per comunicare all’interno dell’associazione criminale. Dalle fonti giudiziarie analizzate e riportate nel saggio di Giuseppe Paternostro affiorano dunque gli “statuti” della mafia, ossia le linee guida a cui gli uomini d’onore si sono attenuti minuziosamente per conservarsi membri delle cosche; le “lettere di scrocco“, dispacci anonimi rivolti quasi sempre a proprietari di fondi a cui si chiedeva una data somma di denaro per i “bisogni delle famiglie”; le palummedde, i pizzini di Provenzano e il papello di Totò Riina.

Se da una parte i pizzini sono messaggi a uso esclusivamente interno, le lettere di scrocco, concepiti per comunicare con l’esterno, sono funzionali per lo svolgimento della principale attività della mafia, ossia il racket della protezione. Gli uomini dell’onorata società, dunque, da sgrammaticati e semianalfabeti, costruiscono una rete comunicativa sotterranea ed efficace che non esclude neppure lo stravolgimento del vocabolario della lingua italiana e dei termini quali “onore”, “famiglia”, “umiltà”, “amicizia”, “verità” che diventano, in questo contesto, simboli per accedere ad un mondo impenetrabile. Le parole e i silenzi scanditi da pause, e una calligrafia incerta dei messaggi – delle “palummedde” o dei pizzini – disseminati nelle isolate masserie, divengono, nell’organizzazione criminale, “un esercizio di potere”.

Eppure, se da una parte il mezzo comunicativo all’interno di Cosa Nostra si avvale di una struttura (comunicativa) che tende a mantenere la segretezza, dall’altra, la scelta di rivolgersi ai media e ai social per  parlare pubblicamente non è sempre stata una necessità dei mafiosi, per informare, come nel caso di Buscetta, o per proclamare la propria innocenza, come nel caso di Liggio, ma di fare dei media, in misura sempre maggiore, un uso strumentale.

“Ogni enunciato, ogni atto linguistico, ogni mossa comunicativa compiuta in pubblico da un uomo d’onore ha un destinatario immediato, ma anche  un destinatario ultimo, che è Cosa nostra stessa, la quale ne giudica il comportamento”.

Dunque, la mafia ha continuato e continua a rivolgersi alla cosa nostra. La mafia è capace di “strumentalizzare l’informazione e di condizionare la stampa”, aveva affermato il procuratore Pietro Grasso, “sa usare a proprio vantaggio mezzi di informazione”,  ad esempio “per avvisare chi si deve difendere da un’indagine o deve fare sparire delle prove”.

“La Cosa nostra dell’inizio del Terzo Millennio presenta caratteristiche riconoscibili che la pongono in continuità con il suo passato, anche sul piano comunicativo. Anzi, potremmo azzardare, è forse proprio il piano comunicativo a consentire di cogliere quella continuità nel mutamento che, in ultima analisi, sembra essere la ragione che ha consentito a quest’organizzazione criminale di attraversare un secolo e mezzo di storia unitaria”.

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