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Quei pericoli che corriamo con la pesca illegale

Pesca illegale, frode alimentare e criminalità organizzata. Le mani mafiose sul mare.

La pesca illegale, che già da alcuni anni tiene alta l’attenzione nel nostro Paese della Guardia Costiera, Istituzioni, associazioni di categoria, grande distribuzione, armatori industriali e della piccola pesca artigianale, denuncia come il tema, derivante dalla scarsità della risorsa ittica nel Mar Mediterraneo quale conseguenza sia dei cambiamenti climatici sia del sovrasfruttamento marino, a fronte di una crescente domanda, non sia rappresentato soltanto dalle tensioni per il recepimento di più o meno severi regolamenti Eurounitari, ma anche, e in misura ancora più problematica, da tutte quelle ipotesi di frode alimentare, partite di pesce vendute al di fuori dei principali controlli sanitari , assenza di documenti fiscali, bracconaggio, e importazione  di pesce proveniente da paesi terzi dove non vi è il rispetto e tutela delle condizioni di lavoro degli equipaggi né, tantomeno, il rispetto dello sfruttamento della risorsa.

Il mercato illegale dei prodotti ittici, quindi, da quelli importati sfuggendo ai controlli, a quelli trasformati attraverso attività di confezionamento che possono renderne opaca la tracciabilità e la reale natura della materia prima, così come la vendita in banchina del congelato, successivamente scongelato con acqua di mare per farlo passare per fresco, ovvero la vendita fraudolenta del pescato frutto di pesca sportiva, possono senza dubbio rappresentare, tutte nel loro complesso, attività economiche a forte richiamo per il controllo criminale.

Anche la gestione dei vivai per l’acquacoltura, in zone del nostro paese ad alta incidenza criminale, può essere particolarmente attrattiva per azioni di ripulitura di capitali di provenienza illecita.

La Sicilia, per la zona di Mazara del Vallo, Sciacca , Porticello e Acitrezza racchiude, nel suo complesso, tra le più importanti marinerie peschiere italiane capaci di rifornire i mercati e la filiera dell’alta ristorazione del centro e nord Italia e, oggi sempre più, anche di un mercato estero attraverso gli hub di Chioggia e di Milano.

L’assenza, quindi, di mercati di prima vendita compiutamente organizzati, dove vi possa essere una corretta pesatura del prodotto e una verifica certificata della provenienza e della salubrità dello stesso attraverso il controllo sanitario della sua corretta conservazione, come di buone e trasparenti pratiche di gestione delle aste , consente l’infiltrazione, nella gestione degli scambi commerciali, delle cosche mafiose che vedono, in tal modo, realizzarsi un’ ulteriore affermazione del proprio controllo sul territorio e l’occasione per riciclare i proventi di altre attività illecite.

Credo che tale controllo criminale sia ad oggi  ancora non risolto nell’area palermitana, in particolare nelle zone sotto il dominio delle famiglie mafiose storicamente più violente e aggressive cioè quelle del mandamento di Porta Nuova e di San Lorenzo.

Non sorprende affatto che si punti a specializzare le attività criminali quasi “ per materia”, mantenendo, pur sempre, sullo sfondo la pratica del pizzo con il controllo pervasivo ed egemone di settori economici specifici e, a dir poco, peculiari di alcune aree dell’Isola come appunto la pesca come pesca illegale .

Non dimentichiamo che alcuni appartenenti all’organizzazione mafiosa palermitana, chi per lungo corso di attività, chi per discendenza, traggono la propria esperienza operativa proprio nelle attività del mare, solo per ricordare la gestione criminale dei Cantieri navali di Palermo oggetto di importanti e storici processi, non meno significativi del più famoso maxiprocesso, come quello alla famiglia Galatolo dell’Acquasanta.

Certo è che una delle opportunità di reimpiego criminale potrebbe essere il controllo del prodotto ittico.

La recente inchiesta sul tentativo di controllo da parte del clan Rinzivillo di Gela, divenuto uno dei più potenti d’Europa, ne rappresenta un esempio di solare chiarezza.

La cosca infatti, in rapporti con mafiosi operativi nella provincia di Trapani e di Catania, oltre le attività illecite tipiche (estorsioni, altri traffici di droga, plurimi episodi di detenzione illecita di armi da fuoco) puntava alla diversificazione delle attività commerciali-imprenditoriali riconducibili alla famiglia, con conseguente infiltrazione nell’economia legale con particolare attenzione ai prodotti ittici.

Dalle indagini è emerso di primaria importanza l’interesse per la commercializzazione di prodotti ittici sull’intero territorio nazionale e all’estero, in forza di accordi intercorsi con importanti esponenti della mafia palermitana per la spartizione territoriale in tutta la Sicilia, con mire espansionistiche anche sui mercati romano, milanese e tedesco, dimostrando come il clan abbia utilizzato le società ittiche per il reimpiego dei proventi illeciti derivanti dalle attività criminali .

Il “patto mafioso” sul commercio di pesce consentiva di “infiltrarsi” nel mercato di settore per mezzo di imprese mafiose controllate, prendendo contatti con esponenti mafiosi di Mazara del Vallo (costringendo taluni imprenditori locali a fornire il pesce a credito piuttosto che a fronte di pagamento in contante all’atto della consegna), con importanti pregiudicati messinesi e perfino con famiglie mafiose italo-americane, di stanza a New York per l’avvio di importanti iniziative economico-commerciali.

Il quadro della altissima pericolosità criminale si completava, infine, con la complicità  di due carabinieri e un avvocato  capaci di ritardare la trattazione dei processi in Cassazione.

Ora proprio tale recente inchiesta dovrebbe incentivare non solo chi correttamente è preposto alla repressione dei reati, che già sa fare egregiamente il proprio mestiere, ma, molto di più,  gli operatori del settore in tutta la filiera a reagire .

Si tratta, in definitiva, di un “warning” su cui soffermarsi con attenzione e ragionevolmente attendersi una reazione anche pubblica, una presa di distanza sdegnata ed etica da parte delle associazioni locali, cosi come dei distretti produttivi  e delle organizzazioni dei produttori.

 

  • Daniela Mainenti Professore associato di Diritto processuale penale Link Campus Università di Catania

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